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Imprese: pagamenti in ritardo per il credit crunch

di Marco Alfieri

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2 novembre 2008


Maurizio P. fa il gessista a Cassano Magnago, periferia ingolfata di Malpensa. Lavora per l'Asl di Gallarate, per alcuni privati che ristrutturano casa e aziende che devono attrezzare gli uffici. Un'attività artigianale tipica non fosse che, al 31 ottobre 2008, Maurizio P. lamenta quasi 80mila euro di mancati incassi. «Fatture differite, le chiama la mia banca», con tono eccessivamente contabile. «D'altronde l'Asl paga a 6 mesi, e poi sono in credito da oltre 4 con un'azienda di quadri elettrici a cui ho sistemato la sede, più altre 5-6- fatture minori. Insomma avevo un fido di 70mila euro con la mia banca, ridottomi 2 settimane fa alla metà, ma ho dovuto chiedere soldi ad un altro istituto per pagare alcuni fornitori». Ovviamente a tassi più alti visto che ormai le banche locali fanno più impieghi che raccolta e quel poco denaro sull'interbancario costa caro.
Nella vicenda di Maurizio P. si mescolano tutti i nodi della crisi che sta mordendo il Paese fin nelle viscere. C'è il rapporto malato con la Pa, che paga a 135 giorni, con punte di 400 al Sud contro una media Ue di 65. C'è la stretta bancaria sui piccoli. Ma soprattutto c'è il ritardo nei pagamenti tra privati, il vero elemento nuovo e devastante di questa crisi. È come se per un mese ci fosse stato solo panico in Borsa, mentre adesso all'improvviso arriva il conto sull'economia reale. Dalla finanza alla produzione, i pur lodevoli tavoli istituzionali per immettere liquidità nel sistema e dare fiato agli investimenti delle imprese rafforzando i Confidi, rischiano di scivolare via come aspirine. Specie in un Paese in cui il 13,2% delle imprese è a rischio insolvenza e i tanti Maurizio P. d'Italia che non incassano le fatture dai medio-grandi in difficoltà stanno diventando il vero baco dell'economia reale. Perché a cascata, in un lungo e perverso domino, non riescono a saldare i crediti dei propri fornitori.
Dati "macro" ancora non ce ne sono, ma basta andare sul territorio per accorgersi che il contagio tra privati è dilagante. Le banche locali, che coprono il 67,5% degli sportelli delle principali province manifatturiere, calcolano che circa il 40% di nuove posizioni aperte nell'ultimo mese altro non sono che una diversificazione creditizia di pmi e artigiani, che già hanno fidi in altri istituti, alla disperata ricerca di nuova liquidità per saldare debiti correnti. Lo sfogatoio dei piccoli è molto semplice. «Le banche ti chiedono il rientro, non scontano le fatture in ritardo e alzano gli spread, tu allora ti devi arrangiare ritardando i pagamenti. È un circuito indotto», spiega Massimo Ferlini, capo della Compagnia delle Opere di Milano. Con la sterminata galassia di pmi, fornitori e contoterzisti destinata a bruciarsi le dita.
«Se la filiera salta andiamo tutti per aria», si agita Fiore Piovesana, 72 anni, titolare di Camelgroup, un'azienda di Orsago che fa mobili (35 addetti per 22 milioni di fatturato) per l'Est Europa. «Un'impresa come la nostra, che non incorpora tutta la filiera produttiva, vive di fornitori. Se un artigiano o una pmi di terzisti va in crisi per noi è un disastro». È questo il focolaio del contagio. «Tra settembre e ottobre nel Trevigiano c'è stato il record di insoluti di pagamento. La catena sta saltando», si sgola Piovesana. Il mobiliere che a fine mese non viene pagato dai grandi mobilifici inevitabilmente slitta il pagamento al terzista da 60 a 90-120 giorni. «Il terzista, a sua volta, offre uno sconto secco del 5-6%, pur di avere liquidità immediata». E questo dà la misura del baco che va a togliere benzina al motore del sistema.
Nel nordest manifatturiero, non a caso, settembre 2006 su 2008 i ritardi aziendali negli incassi sono passati dal 44,2 al 57,3%. Incassi dopo e devi pagare prima, eccolo il cortocircuito. Perché le materie prime o le paghi alla scadenza o il fornitore ti molla. Non bastasse, il baco scava nelle filiere del made in Italy. Per Fabio Storchi, presidente di Comer industries, una delle grandi aziende metalmeccaniche reggiane, «a soffrire di più sono i comparti legati all'edilizia (macchine movimento terra e da cantiere e elettrodomestici). E presto si vedranno effetti su occupazione, ordinativi e indotto». L'Ance stima addirittura in un +11% gli insoluti di pagamento tra propri associati, specie al Sud. «La stretta si fa sentire sulle operazioni a primo rischio», rincara Michele Tronconi, presidente in pectore di Sistema moda Italia. «Ma se le banche stringono sulle lettere di credito, cosa mai trasformiamo in Italia che sia poi da esportare? Dal cotone, alla lana, alla seta, infatti, importiamo tutto». Ricadute? «Molti, a cascata, pagano già in ritardo i propri fornitori».
Poi c'è il problema degli incassi dai grandi gruppi, che stanno scaricando sul credito di fornitura le sofferenze. Vale per le griffe della moda, come ammettono da Biella, dove si concentra la produzione del lusso di mezzo mondo. «E vale per la Gdo», conferma l'economista agro-alimentare Gian Luca Bagnara. «I grandi supermercati, infatti, si stanno trasformando in soft discount. Spingono linee di primo prezzo attraverso un vero boom, +20%, di prodotti a marca propria». Il pendant è che i pagamenti ad esempio nell'ortofrutta oscillano ormai tra i 120-150 giorni. Inoltre, molte catene spostano i pagamenti a gennaio, per non intaccare il bilancio di quest'anno, «quando un ritardo di 10 giorni negli incassi provoca un peggioramento di 0,2 punti del Roi in un'industria alimentare già ultra esposta all'indebitamento bancario (4 volte superiore a quello Ue)». Perché alla fine sempre lì si torna: alle banche che temono il taglio del rating e chiedono ai piccoli di rientrare per ri-patrimonializzarsi. Allargando il baco dei pagamenti.

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